Curious Rituals Rurali V – La rivendicazione dell’ambiente rurale come bene comune.
Come cambia la ruralità nel mondo contemporaneo? Quali “strani presenti” e rituali curiosi” la caratterizzano? Come confrontarsi con essi e usarli per immaginare insieme i “futuri possibili” e quelli desiderati? Per Iperconnessioni Rurali, Nefula, primo studio e lab di ricerca e progettazione italiano di Near Future Design, dedica a Rural Hub una miniserie che esplora i “curious rituals” della ruralità contemporanea.
Cinque articoli creati da 5 giovani near future designer che hanno dato vita a Nefula insieme a Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, partecipanti al workshop con la loro particolare attenzione ai semi di futuro nascosti nel presente. Sono Marta Cecconi, Mirko Balducci, Rudy Faletra, Tommaso Tregnaghi e Giacomo Equizi.
Dopo le Comunità Provvisorie della neoruralità raccontate da Marta Cecconi, l’esperienza di Tierra Buena tra Bitcoin e ruralità illustrata da Mirko Balducci, la complessa realtà dell’uso Big Data in Agricoltura affrontata da Rudy Faletra e la riflessione di Tommaso Tregnaghi su banche dei semi, semi antichi e sul caso iraniano, chiude la rubrica Curious Rituals Rurali il contributo di Giacomo Equizi sull’abbandono degli spazi pubblici e la gestione dei beni comuni.
La lotta alla privatizzazione dei beni pubblici rurali rilancia un modello alternativo di agricoltura condivisa come bene comune, in cui i cittadini collaborano con l’obiettivo di tutelare e preservare i beni per le generazioni future.
Le grandi città, i piccoli paesi e l’aperta campagna hanno una cosa in comune: la diffusa presenza di spazi ed edifici pubblici abbandonati, vuoti da generazioni, inutilizzati in attesa di… cosa?
Da qualche anno, tra le colline del Chianti si sta fronteggiando questa tendenza insensata, trovando modelli alternativi, condivisi e collaborativi per gestire i beni pubblici che, evidentemente, le amministrazioni non sanno sfruttare.
Dal 2009, nel Comune di Bagno a Ripoli i quasi 300 ettari della fattoria di Mondeggi – che comprendono vigneti, pascoli, oliveti, boschi, giardini e varie case coloniche – sono in vendita, dopo il fallimento della scorsa gestione concessa dalla Provincia. La vendita della fattoria significherebbe privare la collettività dei terreni e dei suoi frutti, a vantaggio di un’azienda privata. Dopo l’insuccesso dei tentativi passati, si è quindi deciso di passare alla soluzione più semplice ed immediata: la privatizzazione del bene pubblico. Uno scenario che non prende in considerazione l’opinione della comunità locale, che è fortemente legata alla terra e ai prodotti della fattoria.
Infatti questa decisione non è stata accolta con calore ed è nato il comitato “Mondeggi Bene Comune” con l’obiettivo di mantenere la fattoria pubblica, funzionante e in buono stato. Il comitato riconosce l’enorme potenziale del terreno e della tenuta e sa quali sono i vantaggi che questi potrebbero dare all’intera comunità locale.
Inizialmente il comitato si è dedicato alla sensibilizzazione della comunità rispetto al tema, mostrando le particolarità e proprietà di piante coltivate in loco, organizzando incontri e momenti di lavoro condiviso per curare le piante e raccoglierne i frutti, che altrimenti sarebbero andati sprecati.
Il comitato lavora molto anche sul tema della biodiversità e ha organizzato delle gite guidate: attraverso dei percorsi educativi ai partecipanti è stato insegnato come riconoscere le specie vegetali locali. Mantenere – e saper riconoscere – la biodiversità locale ha molta importanza e questo viene messo in pratica anche attraverso lo scambio delle sementi, che in un modello privatizzato sarebbe assolutamente vietato.
L’obiettivo a lungo termine del movimento è l’autogestione della fattoria di Mondeggi, e quindi la trasformazione della proprietà pubblica in bene comune. Per raggiungere tale obiettivo il comitato si sta muovendo per trovare un accordo con le istituzioni, prendersi carico della fattoria e gestirla comunemente secondo la “Carta dei principi e degli intenti”, documento redatto collettivamente sia in assemblee pubbliche che in rete.
Se l’operazione andasse a buon fine i 300 ettari della fattoria sarebbero di fruizione collettiva, e sarebbero considerati una risorsa naturale da tutelare e preservare a vantaggio delle generazioni future. Questo ovviamente cambierebbe profondamente le cose rispetto allo scenario iniziale – privatizzazione del terreno – e a quello attuale – abbandono del bene pubblico.
L’autogestione, la cooperazione, la collaborazione nel mantenimento di un bene comune – in questo caso fisico, tangibile, che dà frutti concreti – è sicuramente una sfida impegnativa, che richiede lavoro, impegno personale e responsabilità. Ma questo è lo scenario che sicuramente arricchisce maggiormente la comunità locale, e non in un’ottica esclusivamente economica, ma anche sociale, culturale, e salutare.
Persone diverse – per età, professione, interessi, origini, cultura, capacità – collaborano nella cura di un bene, generando valore e tessendo relazioni forti all’interno della comunità locale.
Il riconoscimento dell’immenso valore per la società di questa operazione – che è già in atto – sarebbe l’approvazione istituzionale di queste pratiche.
Significherebbe riconoscere la validità di un modello che non genera solo beni scarsi (frutta, ortaggi) ma anche beni immateriali come la conoscenza, frutto della collaborazione e dello scambio di informazioni tra le persone coinvolte. Significherebbe, inoltre, dare un ruolo educativo e sociale agli spazi rurali. Un ruolo che questi luoghi hanno sempre ricoperto in passato ma che oggi tendiamo a sottovalutare.
Eppure operazioni di questo genere sono in corso – con più o meno successo – da decenni ormai. Sono spesso eventi isolati, che nascono e muoiono un po’ in sordina ma che hanno sempre una qualche utilità o valore. Un esempio interessante in questa direzione è il processo in corso a Bologna, dove l’amministrazione sta lavorando ad un regolamento dei beni comuni. Il progetto si chiama “La città come Bene Comune” e nasce in stretta collaborazione con LabGov – Laboratory for the Governance of Commons. Nella fase di sviluppo il focus è, da un lato, sulla riorganizzazione del funzionamento amministrativo in maniera tale da mettere i cittadini in condizione di attivarsi, dall’altro sulla sperimentazione operativa di gestione civica di spazi e beni pubblici. Il fine è quello di rendere l’esperimento bolognese di gestione dei beni comuni un progetto pilota da poter esportare in altre città.
Intanto la realtà comune dei fatti, quella a cui siamo abituati, è che un’enorme quantità di edifici e spazi pubblici, potenzialmente di immenso valore, siano abbandondati all’incuria, abitati da piccioni e ratti.
Riusciranno questi modelli alternativi a cambiare la realtà dei fatti?
Questo esempio di autogestione e cooperazione sarà replicato, curato, goduto in altri contesti?
È questo lo scenario preferibile? Quali sono le alternative? Come ci si arriva?
Link:
Giacomo Equizi è diplomato in design industriale presso l’ISIA di Firenze, dove attualmente sta completando il master in design della comunicazione. Il suo desiderio di esplorare il mondo e la società lo hanno portato ad interessarsi al “futuro”, tema che affronta come co-fondatore di Nefula, il primo laboratorio italiano di Near Future Design.Tramite la metodologia del Near Future Design riesce ad unire l’interesse per le dinamiche sociali e la progettazione.