Cammino Silenzioso 10

Il cammino silenzioso – seconda tappa

La densa riflessione di Dario Marino per la seconda tappa de “Il cammino silenzioso“, a poche ore dall’incontro con i suoi protagonisti al circolo Bandiera Bianca di Contursi Terme (SA).


MEFITE VIOLATA

[di Dario Marino, Cooperativa sociale Terra di Resilienza]

 

«Le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale rivestono carattere di interesse strategico e sono di pubblica utilità, urgenti e indifferibili». Articolo 38, decreto Sblocca Italia

 

Attraversiamo boschi di lecci, faggi, altipiani e qualche fiume. Il paesaggio lucano agli occhi del viaggiatore a piedi è armonioso e discontinuo al tempo stesso: tra le aspre montagne e colline spesso ci sorprende la vista di una pianura vasta quanto un golfo, di pozzi petroliferi simili a giganteschi alberi di Natale spogli e decisamente fuori stagione, di cave e di polveriere militari in mezzo ai boschi. Vorrei impormi il digiuno del parlato e dello scritto, troppo sazio di interminabili letture e abbuffate di parole su questioni esistenziali e meridionali. Vi è qualcosa però che non vorrei far sfumare in un ricordo lontano, rabbia e speranze non si possono tenere dentro, e per questa eventualità ho portato con me un quaderno per la “bella copia” che avevo iniziato a scrivere alle scuole elementari.

L’inquinamento in queste terre è silente almeno quanto il nostro cammino e sembra assecondare il carattere dei lucani: non è appariscente come le discariche dei rifiuti in Campania, in superficie tutto appare uguale a un tempo. L’amara Lucania si distilla nei fanghi d’estrazione che scorrono nelle falde acquifere, si respira nell’aria, nella mortificazione di quel vecchio che ci ha offerto del vino mentre gli facevamo notare, con non voluta ingratitudine, la vicinanza del pozzo di petrolio alla sua vigna, nello sguardo disperato di chi ha avuto un lutto in famiglia per tumore, nei cartelli vicino le fontane con l’ambigua dicitura “acqua non controllata”.

La Lucania occidentale è l’emblema di tutto ciò che al Sud non è narrato, delle trasformazioni nelle forme di colonialismo interno di questo Paese, di una questione nazionale mai risolta.

Nel secondo giorno di cammino incontriamo un ragazzo che sembra avere il carattere del brigante lucano: “appena mi viene un tumore, piglio un fucile e faccio giustizia a stà terra”. Uno strascico di risentimenti e di odi inestinguibili sono stati attizzati nei decenni dalla prepotenza della borghesia terriera parassitaria e dalla corruzione dei pubblici uffici. I suoi occhi brillano di dignità, ma con poche speranze di lotta: “a me non m’accattano con un lavoro come fanno con tutti i paesani, io non voglio stare in debito né col sindaco, né con chi ci intossica”.

Sembra che tra la nostra gente vi siano solo terra e sangue a muovere le passioni. Penso al salto di qualità nello sfruttamento: un tempo le terre venivano usurpate dai signori e dal Regno d’Italia, oggi vengono violentate per sempre dai petrolieri e dai servi della Repubblica.

Il paesino di Pergola ci accoglie con straordinaria ospitalità. Un gruppo di giovani organizza per il nostro arrivo una grigliata. Hanno voglia di raccontarsi e stare insieme: storie di coscienza e speranza, rassegnazione e fuga. Incontro un ragazzo che lavora in un pozzo petrolifero. Mi sembra abbastanza rassegnato: “usiamo tutti il petrolio…il pesce puzza dalla testa… e poi lavori o non lavori per loro, ti ammali lo stesso, che dobbiamo fare? Ormai qua stiamo”. Mi frulla per la mente Sartre e cerco le parole per spiegare che la vita di un uomo è pura possibilità, non realtà. Una pietra è una cosa che non ha la dimensione del futuro, è quello che è. Noi invece possiamo essere soggetti liberi di scrivere pezzi di storia, anche infinitesimali, e influire sul nostro futuro attraverso atti di volontà. Il ricatto economico rimane lo strumento principale del potere per reificare la libertà dei soggetti.

Mentre la festa finisce, e il vino pure, un compagno di viaggio mi mostra sul suo smartphone un articolo di Franco Arminio sul Manifesto a conclusione della festa della paesologia ad Aliano, finanziata con i soldi delle royalties delle estrazioni petrolifere, dove si sono riuniti artisti, poeti, teologi della bellezza e “partigiani della felicità”. Leggo che “la questione teologica è più importante di quella meridionale” e più avanti ancora: “adesso il compito è di concepire qualcosa che già mentre la concepiamo si dissolve”, invitando ad una rivoluzione “lirica” nel Mezzogiorno. Dissentiamo tutti senza il bisogno di argomentare. Siamo felici di essere tra i ragazzi di Pergola e non ad Aliano. Resta la poca luce della brace, un’altra sera ci saluta. Apro il mio quaderno per scongiurare la paura. Non temo i pecoroni e gli indifferenti, perché tra loro sono cresciuto, ma tutti i Garibaldi con alle spalle i Cavour, tutte le molteplici forme, interessate o involontarie, di assorbire il malcontento del Sud nel blocco del potere.

Nel terzo giorno di viaggio avviene un incontro insolito. Tra il guardrail e gli oleandri di una strada adiacente al nostro cammino ritrovo una testa in ferro di Lenin. Prima di partire, ero preoccupato dall’eventuale imbarazzo di intraprendere, io non credente, quello che nella sostanza è un pellegrinaggio. Lenin in pianura e la Madonna sul Sacro Monte. Scherzo con i compagni di viaggio, elogiando il sincretismo sudamericano e l’importanza della teologia della liberazione in un Paese laico con festività cattoliche.

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Il quarto giorno, dopo una salita indescrivibile e mille metri di dislivello fatti in cammino, l’apparire del Santuario sul Sacro Monte sembra un miraggio, si dissolve ogni specie di imbarazzo: apprezzo la fatica e l’importanza di avere una meta ardua in qualsiasi viaggio.

Iniziano ad arrivare genti da ogni paese e contrada della Lucania. Centinaia di facce paesane e volti spaesati. Durante la notte si mescolano canti, strumenti musicali e accenti diversi, alcuni dei quali fatico a comprendere. Alle cinque del mattino, seguendo una lunga carovana, accompagniamo la “Patrona e Regina” della Lucania, portata in spalla, verso il centro di Viggiano. Mi dicono che in mattinata ci sarà una messa in paese presenziata dal gotha del potere economico e politico della regione. Mi addolora immaginare che, simbolicamente, lì si rinnoverà il “compromesso istituzionale” della classe dirigente meridionale tra sottosviluppo permanente, devastazioni ambientali e conservazione dei privilegi. Noi proseguiamo a piedi sulla via del ritorno.

Qualcuno ha scritto che ci sono due modi di impedire all’essere umano di pensare: una è obbligarlo a lavorare senza riposo, l’altra, obbligarlo a divertirsi senza pausa. Comprendo alla fine del viaggio che la forma migliore di generare pensieri, liberi dalla corruzione e dalle convenzioni di questa epoca, appartiene alla vita del viandante e al regno del silenzio.

Appena a casa trovo un pacco con alcuni libri che avevo acquistato su internet qualche settimana prima. Sfogliando velocemente i dialoghi epistolari di Manlio Rossi-Doria, la mia attenzione si sofferma su di una lettera di Rocco Scotellaro. Leggo ciò di cui ho bisogno: “mi sostiene ancora una profonda fiducia di un lavoro serio, animato dalla ribellione al conformismo del tempo”. C’è poco da fare: la questione meridionale è quanto mai aperta. Il petrolio, i rifiuti tossici delle industrie del Nord, la terra dei fuochi, le navi dei veleni lungo le coste della Calabria, l’Ilva e via seguendo sono tutti episodi che non si spiegano senza un disegno generale. Bisognerà scrivere gli ultimi venticinque anni di sfruttamento della nostra terra, nominare gli intenti e i responsabili. Ecco, ci vuole un lavoro cocciuto e paziente come il passo di un asino e solo così, alla fine, potremo scrivere che un’epoca si è definitivamente chiusa.

Tempo fa in un articolo del Foglio, un docente dell’Università di Bari, nostro malgrado componente del consiglio d’amministrazione della Svimez (associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), scriveva: “Un autorevole dirigente dell’Eni mi ha detto che se lo si vorrà, a causa dell’estremismo ecologista, l’Eni potrebbe anche andarsene dall’Italia e dalla Basilicata, cosicché tornerebbero finalmente i pecorai e i morti di fame”. La verità è che noi meridionali apparteniamo alla modernità in quanto vittime del saccheggio coloniale e neo-coloniale. Nei volti stanchi dei figli dei “pecorai e dei morti di fame” che salivano sul Sacro Monte si specchia la rapina dei malfattori di sempre.

Di noi, viandanti per pochi giorni, rimangono ombre in un mar di luce che ci proiettano su di uno schermo con su scritto “facebook” e resta la voglia di camminare la nostra terra. Tutto cambia, niente è per sempre, nessun paese è un posto dove rimanere, solo un luogo di passaggio e siamo già pronti per un altro viaggio.

 

 

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