Bello e buono, consumo e condivisione
Expo 2015, Matteo Renzi e il Country Brand Index adoperano come parole chiave dell’italianità cibo e bellezza, mentre gli utenti dei social media condividono #foodporn. Viaggio negli universi di senso dei discorsi del gusto.
La bontà del cibo viene spesso articolata tramite la connotazione valoriale di bellezza, ed entrambe rappresentano un modo per conferire senso al mondo. Di certo si tratta di categorie afferenti alla sfera della soggettività, tanto che Umberto Eco, nel volume Storia della bellezza (2010), paragona il “gusto corporeo” al “gusto spirituale” in dipendenza dal fatto che il primo è correlato ai bottoni gustativi di chi assaggia, mentre il secondo dipende dalle categorie mentali di ognuno.
Il legame tra bellezza e bontà ha, inoltre, radici etimologiche dato che il termine bello deriva dal latino bĕllus «carino, grazioso», da duenŭlus, diminutivo di duenos, forma antica di bonus, buono (cfr. Dizionario Treccani). Oltretutto, le varie accezioni di bello rimandano con preponderanza alla sfera culinaria sia in riferimento all’attività estetica, il gusto e il culto del buono, sia al quantitativamente notevole, come nel caso di “un bel piatto di pasta”, quindi di una porzione abbondante. Se la bontà di un cibo si apprezza con un solo senso, quello soggettivo del gusto, la bellezza è una qualità sincretica, ossia che si apprezza con i cinque sensi e può servire come criterio per giudicare il cibo anche non direttamente esperito come nel caso della food photography condivisa sui social network, o più in generale del discorso culinario mediatizzato.
Bellezza, cibo e cultura come asset strategici
Cibo, bontà e bellezza sono collegati al concetto di italianità, implicando una relazione di indispensabilità tra quest’ultimo e l’alta qualità del primo. A dimostrazione della solidità di tale connessione, il 13 marzo 2015 il premier Matteo Renzi, in occasione della sua seconda visita ai cantieri dell’Expo di Milano, l’esposizione Universale su alimentazione e nutrizione, da tempo tra le prime posizioni dell’agenda mediatica e onnipresente in ogni discorso sul cibo, ha dichiarato che la parola chiave di Expo sarà bellezza, topic che da tempo è parte integrante anche della retorica politica come nel caso della #bellezzaincostituzione di Serena Pellegrino, deputata di Sinistra, ecologia e libertà.
Il maggiore indiziato è sicuramente l’Oscar per il miglior film straniero a La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino che ha contribuito a denominare un valore aggiunto dell’italianità, assurto a vero e proprio asset strategico proprio insieme a cibo e cultura, come ha sottolineato Silvia Barbieri[1], head of strategy di FutureBrandItalia, in occasione della pubblicazione del Country Brand Index 2014-2015, lo studio sui brand-Paese del sopracitato istituto, in cui l’Italia si è posizionata solo al diciassettesimo posto. Per rientrare nella top ten bisogna, secondo Barbieri, rilanciare il core strategico della nazione, ripartire da questi asset, declinandoli in alleanze e in reti di eccellenze.
Le risorse che oggi si chiamano asset erano chiari già a Roland Barthes nel 1964 in quanto veicolo di significati di italianità, nell’analisi del noto visual della pasta Panzani. Insomma, sono decenni che l’unicità italiana è sotto gli occhi di tutti e viene resa ancor meglio dai discorsi generati dal basso, ossia dagli utenti dei social network che attraverso una sola immagine di una pietanza colgono ciò che politici e intellettuali esprimono con perifrasi complesse.
L’Italia del #cibo nella condivisione dei contenuti
Tramite la lista dei dieci hashtag co-occorrenti generata attraverso il tool online base Hashtagify, si è visto che a #cibo sono connessi #pizza e #Napoli, elementi indiscussi dell’italianità, e che quest’ultima ricorre anche nelle correlazioni di #cucina, insieme a #Italia e #italiana, #dolci e #dessert, che chiariscono, insieme a #cake collegato a #cibo, la tipologia di pietanze prediletta dagli utenti dei social. #Food, invece, è legato, restando in ambito Hashtagify, a #bellaitalia, mettendo in luce un elemento importante delle conversazioni in rete, ovvero la commistione linguistica anglofona che può essere intesa sia rispetto al respiro globalizzato che si imprime nei post per ricercare like da tutto il mondo, sia come traccia della percezione degli stranieri della cucina italiana. In effetti, in una precedente ricerca[2], ho avuto modo di rilevare che #italiansdoitbetter è usato prettamente da stranieri (anche italo-americani), in vacanza o immigrati in Italia, per condividere immagini di cibo in rilevata, così come #madeinitaly. “Gli italiani lo fanno meglio” (cucinare, s’intende) e ce lo riconosce tutto il mondo.
Ulteriore prova empirica del fatto che cibo e bellezza sono due facce della stessa medaglia, e come tali vengono twittate, è data dall’inserimento di queste parole chiave su Twitter Advanced Search e dal vastissimo numero dei risultati generati dal motore di ricerca. I tratti caratterizzanti dei post sono riconducibili, per semplificare, a quattro universi di senso: l’appartenenza a un luogo e a una cultura; salute e benessere (in cui spesso sono presenti link ad articoli o tutorial); eccellenza nazionale; pratiche innovative (social innovation e sostenibilità ambientale e alimentare). La costante emotiva è sostanzialmente euforica, eccetto in alcuni tweet afferenti alla sfera dell’eccellenza nazionale in cui si rileva il fenomeno dei bashtag, ovvero l’uso degli hashtag in accezione ironica rispetto, ad esempio, alla sottovalutazione del patrimonio italiano o al malgoverno.
I quattro universi di senso dei tweet su #bellezza e #cibo possono confluire in una macro-categoria ascrivibile alla convivialità, ovvero al piacere di condividere il cibo con il social graph di riferimento. Il cibo è patrimonio nazionale, mondiale, e come tale va prontamente comunicato, messo in comune e compartecipato.
Fotografare il cibo, #foodporn e food photography
A questo punto, va evidenziato che fotografare il cibo e condividerlo istantaneamente sulle reti sociali, pubbliche e private, con hashtag o via Whatsapp, ormai è un’azione automatica, uno stimolo necessario, come bere e, appunto, mangiare. La fame non conta, né tanto meno il fatto che la pietanza possa diventare fredda. L’imperativo è condividere e generare invidia e commenti. Sembra che mangiare sia subordinato al fotografare, perché bisogna bloccare quell’istante per rendere immortale il piatto, o almeno il suo impiattamento. La digestione farà il resto, ma ciò che importa è cristallizzare l’atto del mero e volgare consumo a scopo di nutrimento. Il cibo assurge a opera d’arte, a Gioconda nel Louvre, è a più riprese definito espressione di bellezza e di un momento di vita positivo. E, siamo sinceri, se la foto è accompagnata dal commento standard “alla faccia vostra” serve anche come frecciatina, probabilmente inutile, a “chi ci vuole male”.
Volendo andare oltre le bieche supposizioni, utilizzando un po’ di buon senso e i tool per l’analisi dei discorsi sui Social Media, è lapalissiano l’attestarsi mondiale dell’hashtag anglofono, a conferma del discorso sulla lingua di cui sopra, #foodporn che, contrariamente all’apparenza, non descrive una pratica sessuale stile YouPorn con tanto di degustazione “esperienziale”, bensì un bel piatto di pasta al sugo. In questo filone, per completezza di informazione, si inserisce anche l’hashtag #foodgasm, crasi tra food e orgasm, l’άκμή della sessualità, che esplicita l’esplosione di gusto di una pietanza tramite una simpatica sinestesia.
La prima a parlare di food pornography è stata l’accademica, giornalista e scrittrice Rosalind Coward, nel suo volume Female Desire (1984) in cui descrive il cucinare e il presentare una pietanza come un atto di servilismo votato al desiderio di donare affetto in modo gradevole e tecnicamente perfetto. Secondo Coward, ciò emerge con preponderanza nelle fotografie di cibo che spesso reprimono il processo di preparazione e sono ritoccate e illuminate benissimo. In questo senso, cucinare è un modo elegante di prostrarsi e di offrire, come si fa nei photoshoot di moda, il proprio profilo migliore. Il collegamento con la pornografia sta, quindi, nel concedersi, nell’offrire un servizio, edibile o meno, a patto che sia senza sbavature.
Una posizione, a tratti, un po’ esasperata rispetto all’arte culinaria, specialmente se contestualizzata nel Mediterraneo nostrano dove la mater familias ha l’abitudine di sancire i momenti topici del focolare con manicaretti in cui sono racchiusi non solo valori nutrizionali, ma anche tradizionali e affettivi. Piuttosto, rispetto al trend sopracitato della condivisione compulsiva di food photography, risulta decisamente pregnante l’osservazione di Coward sull’illuminazione e sul ritocco delle immagini, che sono accomunate da una composizione statica e simmetrica volta a generare l’effetto di senso di armonia di forme e colori. Nella fotografia di food imperano le rime cromatiche, eidetiche e plastiche per fare in modo che il cibo risalti anche grazie alla disposizione degli oggetti. Si rimedia lo still life, l’istante durativo, per immortalare il cibo nel pieno della sua volatile freschezza e fragranza.
La fotografia etichettata con #foodporn è, infatti, filiazione diretta dello still life che scaturisce a sua volta del genere pittorico della natura morta, o vanitas, termine derivante dalla locuzione latina “vanitas vanitatum et omnia vanitas”, tratta dal Qoelet. Si tratta di una celebrazione ironica dell’ineluttabilità dello scorrere del tempo e della vanità dei piaceri terreni, che si colloca a piè pari tra preservazione, consumo e consunzione. Conta, dunque, la componente passionale e sinestesica dell’immagine dove il modo di dire “anche l’occhio vuole la sua parte” trova la sua più ovvia manifestazione. Attraverso la rappresentazione visiva, si cerca di ammaliare l’osservatore mediante la forma, testura e colori della pietanza, poiché gusto e olfatto non possono essere direttamente coinvolti.
Si tratta di una presa estetica, come amava definirla Algirdas Greimas, ovvero l’attivazione della sfera sensoriale per provocare sensazioni nostalgiche rispetto alla volatilità di un manufatto la cui proporzionalità tra tempo di preparazione e tempo di consumo è spesso magnificamente sottodimensionata. Mangiare è l’atto di consumare stricto sensu, poiché la pietanza, per quanto bella, viene ridotta al nulla in virtù del bisogno primario di nutrirsi. A tale proposito “mangiare con gli occhi”, uno degli usi figurati del verbo, serve a rendere l’idea del desiderio, dell’avidità, con cui si guarda una determinata cosa e ci riconduce al gusto oculare di cui sopra.
Insomma, dietro #foodporn, così come dietro tutti gli hashtag rilevanti nel panorama social, ci sono complessi universi di senso, tanto che Dan Zarrella, noto “scienziato” dei social media, è giunto alla conclusione che l’hashtag appropriato è direttamente proporzionale al numero di like, così come la scelta del filtro fotografico adatto che risulta essere, addirittura, il Normal, ovvero il #nofilter, a cui seguono Willow, Valencia, e Sierra. Questi e altri insight si trovano nell’infografica dal titolo “The Science of Instagram”, pubblicata l’otto settembre 2014, in cui si riportano i risultati di un suo studio condotto su un campione di 1.494.175 immagini postate su Instagram da 538.270 utenti, finalizzato a identificare le buone pratiche della condivisione di foto di successo. Da altre ricerche, invece, è emerso che Lo-fi è il filtro elettivo del #foodporn poiché rende il testo visivo leggermente sfocato e ne riscalda la temperatura di colore, in altre parole genera l’effetto flou, che convoca la percezione propriocettiva e la sensomotricità corporea (Basso 2003, p. 59), e valorizza la rappresentazione rispetto a estetizzazioni condivise dalla cultura di riferimento per fare in modo che l’osservatore possa aver modo di mimetizzarsi nell’esperienza culinaria.
Consumare una pietanza è un’esperienza estetica ed estatica che, riprendendo uno degli aforismi a sfondo culinario più citati sui social network, scaturito dalla penna di Thomas Somerset Maugham, “è come il profumo di una rosa: lo puoi solo odorare”.
[1] NC, n. 51, dicembre-gennaio 2015.
[2] Cfr. Gabriele Marino e Bianca Terracciano, “La grande bellezza italiana: percezioni e rappresentazioni sui social network”, in Storytelling Europe, ICS Magbook n. 1, Fausto Lupetti Editore, 2015.